Intervista a T. sulle difficoltà delle persone straniere nel trovare casa
Abbiamo incontrato T., una donna rifugiata proveniente dal Nord Africa. Arrivata nel 2022, T. ha fin da subito avuto difficoltà a trovare una casa.
«Con mio marito cercavamo ogni giorno, ma non trovavamo nulla. Non potevamo restare in strada, così siamo andati in albergo. Pagavamo 1100 euro al mese per una stanza senza cucina»
Chiediamo a T. come fossero le condizioni di vita in albergo.
«La parte peggiore erano gli scarafaggi. Usavo ogni tipo di prodotto, ma non andavano via. La notte mi sembrava di averli addosso. Quando sono rimasta incinta la situazione è diventata insostenibile, l’odore dei prodotti per me era insopportabile. Abbiamo cambiato albergo, costava un po’ di più ma almeno aveva la cucina e non c’erano scarafaggi. Noi intanto continuavamo senza fermarci a cercare una casa, siamo rimasti in albergo per 3 mesi»
Anche T., come altrɜ, ci racconta come la risposta principale al loro pressante bisogno sia stato il silenzio. «I privati sui social non rispondevano, e quando un’amica italiana chiedeva per lo stesso annuncio, a lei rispondevano. Poi sentivano il nostro nome, e sparivano di nuovo».
Chiediamo a T. se si sia mai interrogata sul perché di un simile comportamento generalizzato. Ci risponde di sì: «Le agenzie immobiliari ci hanno detto apertamente che trovare casa sarebbe stato difficile perché siamo arabi e la gente ha paura di noi. Dicevano ‘non dipende da noi, è il padrone della casa che la pensa così… Non vogliono stranieri, non vogliono arabi'»
La situazione era aggravata anche dal fatto che il marito di T. ha un contratto determinato che gli viene rinnovato ogni anno. «Ma che deve fare per vivere uno, se non gli fanno il contratto indeterminato?»
Intanto il termine della gravidanza si avvicinava. «Abbiamo deciso di rivolgersi allo Sportello Casa del Centro Astalli. Ci hanno dato dei consigli e ci hanno aiutato a cercare, ma il problema non era trovare annunci, ma qualcuno che ci accettasse»
Chiediamo a T. come si sia risolta la situazione. «Un giorno, chiedendo nel bar della biblioteca di Lavis –dove seguivo un corso- ci hanno passato il contatto di un sacerdote. Il sacerdote si è impegnato a darci una mano, e ha parlato con alcuni residenti, chiedendo se qualcuno avesse un immobile sfitto. I residenti dicevano al sacerdote di avere paura ad affittarci e di non fidarsi di noi. Ma il sacerdote ha insistito, perché io ero incinta e non era possibile che fossimo stati tre mesi in albergo per questo problema. È intervenuta una persona che lavorava al Comune, ed è solo per questo che una famiglia ha accettato di affittarci un monolocale, ma solo per un anno. Poi dovremo andarcene»
Nel frattempo T. ha dato alla luce la sua bambina. Per il momento, lei e la sua famiglia hanno un alloggio dignitoso, ma il futuro è ancora precario: «Abitare in albergo ha prosciugato tutti i nostri risparmi, e non sappiamo cosa succederà fra un anno. Ho l’impressione che i nostri padroni di casa ancora adesso abbiano paura di noi. Vorrei invitare i miei locatari a cena, appena la bambina chiederà un po’ meno delle mie energie. Magari potrebbero conoscerci, vedere che siamo una famiglia onesta, e cambiare idea su di noi»
Lo speriamo davvero, perché non è questo il Trentino che vogliamo: le difficoltà di T. e della sua famiglia -la paura del diverso, la diffidenza che impedisce di rispondere ai bisogni delle persone straniere- non possono essere normalizzate e accettate.
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