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TRIESTE È BELLA DI NOTTE

La violenza dei confini lungo la Rotta Balcanica.


Il 22 gennaio, al Trieste Film Festival, è stato presentato in anteprima nazionale Trieste è bella di notte, film prodotto da ZaLab e diretto da Matteo Calore, Stefano Collizzolli e Andrea Segre. Il documentario ha poi iniziato un tour insieme agli autori in alcune sale d’Italia, arrivando anche a Trento lo scorso 6 febbraio.


Trieste è bella di notte è un racconto collettivo di quanto accade lungo la rotta balcanica, e dà la parola direttamente a chi quella rotta l'ha percorsa o la sta ancora percorrendo. Protagonisti e narratori, infatti, sono proprio i migranti che intraprendono il game, ovvero il tentativo di attraversare la durissima frontiera che separa dall'Unione Europea. Il film dà voce a ragazzi incontrati negli squat di Bihać, in Bosnia, in attesa di intraprendere il game, e ad altri finalmente arrivati al centro di accoglienza Casa Malala, a Trieste.

Nello specifico, la regia offre uno spaccato del periodo a cavallo tra il 2020 e il 2021: mentre l'attenzione mediatica si concentrava quasi interamente sulla pandemia, le persone continuavano a spostarsi, e il viaggio dei migranti in arrivo dai Balcani si interrompeva violentemente sul confine bosniaco-croato e su quello italo-sloveno.


Il film ricostruisce il lungo ed estenuante viaggio di chi, da diversi paesi dell’Asia, passando per la Turchia e poi lungo i Balcani, arriva alle porte di un'Europa chiusa, fortezza irraggiungibile i cui confini sono presidiati da forze di polizia. La rotta balcanica è cosparsa di frontiere da attraversare, barriere che separano i migranti dal loro sogno di libertà. Ognuna di queste frontiere rappresenta il rischio di essere intercettati, picchiati e derubati, quindi rimandati indietro. Significa perdere tutto e dover ricominciare da capo, appena curate le ferite inflitte da chi opera i respingimenti.



Colpisce molto il contrasto tra la speranza e l’entusiasmo manifestati da chi è ancora negli squat di Bihać, e il sentimento di rassegnazione che sembra invece affliggere molti dei ragazzi intervistati a Trieste, ospitati in un progetto di accoglienza per richiedenti asilo, ancora provati dal viaggio, nonché turbati dall'incertezza rispetto al loro futuro. Il documentario mette in evidenza quanto questi viaggi possano cambiare le persone che li intraprendono, ma raccoglie anche la loro voglia di raccontare quanto hanno vissuto. Mentre nella loro lingua ricordano il game, le lunghissime traversate nella neve, nascosti nella foresta, senza cibo né acqua a sufficienza, le violenze della polizia, intanto sullo schermo scorrono le riprese fatte con i loro stessi telefoni, che immortalano spezzoni di questo loro viaggio.



In occasione della proiezione del film a Lavis, Matteo Calore ha sollevato il grande problema della disuguaglianza con cui è distribuita la libertà di movimento nel mondo, sottolineando l’insensatezza per cui alcuni passaporti valgono meno di altri, negando a chi è nato in una certa parte del mondo il diritto di spostarsi in modo regolare - e quindi in sicurezza - in cerca di una vita migliore. In questo panorama ingiusto, i paesi che detengono il privilegio lo difendono, anziché fare in modo che diventi un diritto garantito a tutti. Come testimoniano le storie dei ragazzi intervistati, l'Italia stessa ha violato il diritto all'asilo in più occasioni, praticando le cosiddette “riammissioni informali”. Questa prassi, dichiarata illegittima e quindi al momento sospesa, prevedeva il rinvio nel paese di provenienza con una procedura semplificata per tutti i migranti intercettati alla frontiera senza documenti regolari per l'ingresso. Chiaramente in contrasto con le norme nazionali e internazionali in tema di libertà e diritti umani, le riammissioni informali sono state praticate più di 1300 volte nel solo anno 2020, causando danni enormi a tantissime persone migranti, arrivate sul nostro territorio dopo viaggi estenuanti e terribili sofferenze.


Come evidenzia il documentario, respingere i migranti che tentano di attraversare i confini si traduce spesso in una caccia all’uomo, in cui l’obiettivo sembra non essere solo presidiare le frontiere, ma ferire, scoraggiare e umiliare che tenta di attraversarle, annientandone l’umanità. Il che spinge molti, durante il viaggio, a desiderare di non essere mai partiti, di essere rimasti nel loro paese ed essere morti lì. Queste stesse dichiarazioni si alternano nel film a quelle di alcuni ministri italiani, che non concepiscono nemmeno come violenza quella che è una vera e propria violazione dei diritti umani.


Il film fa emergere il forte sentimento di dignità e autodeterminazione di quanti si mettono in viaggio per esercitare il proprio diritto a vivere liberamente, ma documenta anche la spietatezza che risiede in ciò che chiamiamo “difesa dei confini”, oltre all’ipocrisia di una classe dirigente, la nostra, che finge di non vedere le violenze, e rivendica il proprio diritto al respingimento.


«Per me il momento di maggiore felicità è stato quando abbiamo attraversato il filo spinato dalla Slovenia. In quel momento dalla montagna si vedevano le luci della città nell’acqua. Vederle è stato un momento di grande felicità nella mia vita. Dal confine, dall’alto, di notte, Trieste è molto bella»

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